La moda corre, il pianeta frena e l’innovazione tenta di ricucire una filiera al collasso
Il sistema tessile europeo consuma risorse oltre il limite, vincolato da processi rigidi che obbligano a produrre più di quanto il mercato richieda e generano CO₂, scarti e inefficienze. Nuovi approcci tecnologici iniziano a ridisegnare lo scenario
Il mondo della moda, in Italia così come in Europa, si trova davanti a un punto di non ritorno, perché dietro il fascino delle passerelle dei brand di lusso e la velocità del fast fashion si nasconde una delle filiere industriali più impattanti per il pianeta. Secondo l’Unione Europea il settore textile rappresenta la quarta voce per pressione ambientale. Solo nel 2017, l’Agenzia europea dell’ambiente ha evidenziato come gli acquisti di prodotti tessili nell’UE hanno generato circa 654 chilogrammi di CO₂ equivalenti per persona, e che la produzione del settore è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile.
Questi dati ci descrivono un modello industriale ormai al limite, ancora fondato su una logica di iperproduzione e su una rigidità tecnologica che impone grandi volumi, lunghi tempi di set up e un utilizzo inefficiente delle risorse. Oggi infatti, per produrre un tessuto, indipendentemente dalla sua materia prima, è necessario avviare macchinari che richiedono una metratura minima di filo ovvero un vincolo tecnico che obbliga le aziende ad investire in metri di tessuto non sempre richiesti dal mercato. Da qui ne derivano inevitabilmente magazzini pieni, scarti di produzione e sprechi strutturali che si ripercuotono sull’intera filiera, dai fornitori ai brand, fino ai consumatori.
Nel frattempo però il consumo evolve nella direzione opposta poiché cresce sia la domanda di capi personalizzati sia la sensibilità verso l’impatto ambientale e l’uso degli strumenti digitali per scegliere, acquistare e ricevere prodotti in tempi rapidissimi. È la contraddizione del tempo presente: un mercato che richiede agilità e sostenibilità e un sistema produttivo che risponde ancora con tempi lunghi e processi rigidi.
Alcuni, tra i produttori più attenti, stanno iniziando ad accorgersi di questa incompatibilità, Paola Salvetti, founder di DNA, ne è un esempio. Negli ultimi anni ha analizzato l’intera filiera per ridurre drasticamente le giacenze e diminuire il carico ambientale della produzione tessile tradizionale, ancora rigida e vincolata a quantitativi minimi anche per avviare un semplice campione, con conseguenti tempi e costi elevati. Esperienza e tenacia hanno portato ad avviare un know how meccanotessile in grado di superare i vincoli della produzione tradizionale, consentendo di produrre il consumo necessario che ne deriva da ogni singolo capo/oggetto, incrementando rapidità e customizzazione.
La fase di realizzazione del tessuto rappresenta un forte vincolo per l’intera supply chain a valle, e l’adozione di una tecnologia più flessibile nel settore textile può diventare un vero game changer per il mercato.
Non si tratta di una semplice innovazione industriale, ma di un cambio di paradigma che consente di passare da un modello di produzione predittiva, dove la produzione tradizionale rigida e con una forzata anticipazione produttiva non garantisce una vendita certa, ad un modello “demand-driven”, con una produzione realmente guidata dalla domanda reale.
“In questo modo il beneficio non è solo tecnico, ma sistemico. La nostra tecnologia permette una riduzione drastica delle giacenze e un abbattimento reale dell’impatto ambientale. Con il nostro know-how vogliamo abbattere un paradigma e azzerare quasi del tutto i tempi di set up, il che significa consumare meno energia, meno acqua e utilizzare solo il fabbisogno necessario richiesto dal mercato. I tempi tradizionali lunghi condizionano la creatività dello stile, con il rischio che il prodotto finale risulti meno adeguato rispetto alle attese del mercato. La conseguenza più interessante è culturale poiché si torna a una collaborazione autentica tra designer e produttore, stimolando la co-creazione con lo stilista, proprio in virtù del fatto che questa tecnologia non limita più la creatività ma la potenzia” conclude Paola Salvetti RD e founder di DNA.